14 luglio 2011  - EUROOM spazio arte

La lingua di latta


poesie di

Daria Collovini


fotografie

di Euro Rotelli

Ci sono infinite stanze: si aprono in vertiginosa prospettiva in questa raccolta di versi di rara bellezza ed intensità, che ha il sapore minimale ed esistenzialista dei vicoli di Montparnasse (molto sarebbero piaciuti al vecchio Sartre, specialmente per le domande che fanno sbocciare sui tanti delusi perché che costellano il firmamento degli uomini), trasfigurati in un altro dove, che potrebbe essere anche il nostro, dal momento che il destino di ognuno è impastato d’aria, di vento e di luce, come di tenebra, di rauca e canto. L’autrice, Daria Collovini, le attraversa tutte, queste stanze, con silenzioso passo, sussurrando voci che trasforma in distillati di emozione, sussulti e reminiscenze che si stemperano sempre in un compostissimo vibrare, in cui anche il male più intenso può avere musicali risonanze e la gioia veli di ineffabile malinconia.

Impossibile rimanere indifferenti a queste carte: appunti scritti a margine di una vita che si intuisce intensa e appassionata, tanto nella meraviglia quanto nel dolore; nella sensuale percezione del tutto, che ci confonde con le colorate trame dell’esistere, e nell’analisi impietosa della ragione, che ci fa star male perché non ci sottrae alla consapevolezza di quello che siamo. Per nostra fortuna non c’è nulla di straordinario, nulla di eroico in questa epopea dell’anima che possa compromettere con la sua esibita volgarità – così tanto largheggiata nei tempi squallidi in cui siamo chiamati a vivere! - la bellezza che si cela dietro l’apparente ordinarietà della vita, che l’autrice raccoglie ovunque, tra le pieghe di un cuscino sgualcito, o nelle invisibili dita del vento che le scompiglia e rannoda i capelli: immagini consuete che la sua penna sa trasformare in varchi di coscienza capaci di conferire ad ogni epifania il sapore di un’umanità riconquistata, perduta ma ritrovata, difesa con coraggio e straordinaria fermezza.

Scatti in bianco e nero, profili dell’anima rubati alla penombra dell’esistere, dove la freddezza della logica che pretende di conoscere il senso delle umane cose cede sempre il passo al mistero che invece non si sa spiegare, tra lo struggimento dei naufragi e l’insperata luce degli approdi: sono questi i segni che l’autrice lascia cadere nella spirale delle sue odissee quotidiane, nelle ferite mai guarite e quindi feconde di canto della sua biografia, paradigma di molteplici vite che si sovrappongono dentro i contorni di una vita sola, la sua, la nostra, si intersecano, si confondono fino a formare la trama di una universale e sempre inesausta sete d’esistere, rivendicata con coraggio e appassionata voce, anche contro ogni evidenza, anche malgrado ogni conclamato vaticinio del fato, degli uomini, delle circostanze. Raccoglierli per noi lettori significa avvicinarsi agli universi interiori dell’autrice, sfiorando quell’incerto limite tra la veglia vigile e la visione sognata che traccia il sentiero luminescente della sua poesia, fatta di oggetti, ricordi, sensazioni, immagini, sapori. Dettagli. Perché nel dettaglio si cela la verità, che occhieggia in insperate ed inimmaginabili specole, sul ciglio di una strada asfaltata, nello sferragliare di una vecchia bicicletta, nell’affanno umido e sudato dell’estate. Nell’ombra di un giardino d’inverno. Tra occhi di madre e mani di padre si inscrive un magma di affetti, reminiscenze, paure, trepidanti attese, illuse disillusioni, arditissimi voli. Speranze. Amori.

E ci accorgiamo solo alla fine che da donna qual è Daria dipana, come soltanto a una donna è dato fare nel suo evocativo sentire, le stagioni di ogni tempo, quello che è stato e quello al di là da venire. Sensazioni che lasciano intuire quella inappagata ansia di salvezza, o forse di redenzione, che è in definitiva il prodigio di cui sola è capace la vera Poesia.